Per un “New Deal europeo”

Secondo Edouard Tétreau, Direttore dell'Ufficio di Pargi di ECFR, l'avvento di una nuova generazione di politici in Europa apre la strada a un rilancio del progetto comunitario. Un rilancio che passa per un massiccio programma di investimenti e che richiede un riorientamento delle spese.

Les Echo, 9 settembre.

Traduzione in italiano di Maurizio Pollio per Voxeurop

Si ricomincia! E sia Parigi che Bruxelles scoprono i volti dei nuovi “maestri”, a capo dell’economia francese (Emmanuel Macron, 36 anni), della diplomazia europea (Federica Mogherini, 41 anni) o ancora del coordinamento economico e del piano di rilancio europeo di Jean-Claude Juncker: sarebbe nuovo il ruolo del finlandese Jyrki Katainen, 41 anni, come nuova la carica del francese Pierre Moscovici, 56 anni.

Per questa generazione era finalmente giunto il momento di prendere le redini della situazione, sulla falsariga dei britannici (David Cameron e George Osborne, 43 e 38 anni rispettivamente al momento delle nomine) e dell’italiano (Matteo Renzi, 38 anni). Poiché, in questi ambiti, c’è un bisogno urgente di idee e nuove energie per sostenere e incarnare quello che potrebbe essere un “New Deal francese ed europeo”.

A furia di piccoli compromessi e di grandi smentite l’Europa è diventata trascurabile e trascurata, dato che ogni paese cerca di proteggere i propri interessi economici e strategici. La Russia può fare la guerra in Ucraina senza temere rappresaglie; il Sahel, il Medio Oriente possono sprofondare nella barbarie e addestrare alla Jihad: l'Europa non fa nulla perché non se ne dà i mezzi.

Stessa cosa accade per le dinamiche economiche del Continente: in nome del mito dell’ortodossia di Francoforte, i diciassette paesi membri dell’eurozona preferiscono la deflazione, ormai accertata, e la disoccupazione di massa, che risparmia soltanto Germania e Austria, al rilancio dell’Europa mediante una politica decisa, che incentiva le grandi opere pubbliche e le infrastrutture paneuropee.

Il 15 luglio, nel suo discorso inaugurale, Jean-Claude Juncker non si è sbagliato: c’è urgente necessità di un “nuovo slancio” per l’Europa, un ulteriore piano di investimenti di 300 miliardi di euro. Ma ci occorrono 300 miliardi l’anno, ovvero il 2% – soltanto – del Pil dell'Unione. E neanche quanto è stato proposto (300 miliardi in tre anni) basterà. Infine, manca un settore fondamentale nella lista di questi ulteriori investimenti futuri (energia, trasporti, istruzione, ricerca): la sicurezza civile e militare dell’Europa. Bisogna aspettare che i carri armati russi attraversino la frontiera polacca, che i jihadisti facciano saltare in aria la Bce di Francoforte o il Parlamento europeo di Strasburgo, prima di deciderci finalmente a investire fortemente e in modo coordinato tra i paesi europei e le loro imprese, nel nome della nostra sicurezza collettiva, condizione necessaria per le nostre libertà individuali?

Per la prima volta in venticinque anni, dalla caduta del muro di Berlino, si dispone di tutte le condizioni per un “New Deal”: riforme strutturali e rimessa in ordine dei conti pubblici da parte di ogni paese dell’eurozona. Anche Francia e Italia, oggi gli ultimi della classe europea, si sono alla fine decisi a farlo. In “cambio”, un ingente programma di investimenti — non di spese — nelle infrastrutture di sicurezza e nella crescita del continente europeo. Non manca nulla: gli strumenti della Bce, quelli della Banca europea per gli investimenti; e il considerevole bilancio dell'Unione europea (mille miliardi di euro in sette anni) che merita di essere utilizzato in modo diverso dai finanziamenti e dalle sovvenzioni a pioggia.

Quasi tutti i paesi possono esprimere la volontà politica necessaria per questa ambizione. Soltanto un alunno manca ancora all’appello, ed è il primo della classe europea: la Germania. Per motivi comprensibili, legati alla propria storia e alla demografia, la Germania sembra incapace di affrontare le sfide del momento, condannando senza vederlo né volerlo il resto dell’Europa alla disoccupazione e alla deflazione. E a rimanere dipendente dalla NATO, di cui si celebra il 65° anniversario, e la cui leadership americana ormai non fa più mistero del proprio disinteresse nei confronti dell’Europa e della propria tentazione isolazionista.

I segnali incoraggianti di una politica diversa si moltiplicano in Germania, da parte del presidente della Repubblica Joachim Gauck, del ministro della Difesa Ursula von der Leien, del ministro dell'economia Sigmar Gabriel o del ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier.

Spetta ora alla cancelliera Angela Merkel, al ministro delle finanze Wolfgang Schäuble e al presidente della Bundesbank Jens Weidmann fare un passo in avanti, fare la loro parte per questo “New Deal” europeo. Non farlo sarebbe una manna dal cielo per i sostenitori della dissoluzione dell'euro, del ritorno all’Europa di ieri: l’Europa del franco, del marco tedesco e della guerra — fredda o calda — ma questa volta senza l’appoggio degli Stati Uniti. “Nein, danke.” — no, grazie.

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