Migrazioni: quali lezioni può imparare il Giappone dall’Europa?

La forza lavoro in Giappone sta invecchiando rapidamente e i legislatori stanno lavorando per riformare le leggi sull’immigrazione. Quali lezioni può insegnare l’Europa al Giappone?

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In Giappone è in corso una modifica delle leggi sull’immigrazione notoriamente restrittive. Nel corso delle ultime settimane, i legislatori giapponesi hanno tenuto una sessione straordinaria della Dieta, l’organo legislativo del Giappone, per discutere sul tema. L’obiettivo è favorire l’ingresso di lavoratori stranieri per far fronte alla grave carenza di manodopera nazionale registratasi in quarant’anni evitando però di arrecare una forte pressione sulla società. Un risultato che potrebbe risultare difficile da raggiungere dato che, nel 2017, i residenti stranieri regolari coprivano solo l’1,95 della popolazione nazionale.

Quali lezioni può un continente con una lunga storia di immigrazione come l’Europa insegnare al Giappone? Alla luce della discussa crisi migratoria in Europa, molti giapponesi considerano l’esperienza europea un monito piuttosto che un modello da imitare. E invero, l’aumento delle tensioni sociali e del populismo che ha fatto seguito alla crisi migratoria in Europa, non fa che avvalorare tale posizione. Tuttavia, si sta guardando un fenomeno complesso in un’ottica riduttiva. Se il Giappone desidera affrontare con efficacia le sfide migratorie a cui si aggiungono le sfide derivanti dal calo della popolazione, deve guardare oltre la crisi migratoria.

L’urgente bisogno del Giappone di migranti

Uno sguardo alle tendenze demografiche del Giappone conferma l’urgenza della questione migratoria. Considerando che circa il 25% della popolazione è over 65, il paese si attesta un tasso di invecchiamento della popolazione tra i più elevati al mondo. Con i tassi di natalità inferiori ai livelli di sostituzione, l’aspettativa di vita più lunga del mondo, e la generazione dei baby-boom che raggiunge ormai l’età pensionabile, il Giappone deve altresì affrontare le sfide connesse al sistema sanitario e al regime pensionistico. Nel settore dell’edilizia giapponese, ad esempio, un terzo dei lavoratori ha più di 55 anni e solo l’11% ne ha meno di 29. Stando al report pubblicato lo scorso anno dal Migration Policy Institute, “gli immigrati dovrebbero sopperire almeno al 10% della popolazione totale” per auspicare ad un’efficace risoluzione di tali sfide.

Fino a poco tempo fa, il Giappone ha preferito far ricorso agli immigrati altamente qualificati e investire nell’intelligenza artificiale per mitigare la carenza di manodopera. Lanciata nel 2012, l’iniziativa “Highly Skilled Foreign Professionals Visa” prende parzialmente ispirazione dai sistemi Australiano e Canadese. Lo scorso anno il Giappone ha adottato delle misure per concedere la residenza permanente a un certo numero di lavoratori altamente qualificati in meno di un anno. Malgrado gli sforzi, l’edizione del 2017 dell’IMD World Talent Ranking, posiziona il Giappone tra le 11 nazioni asiatiche meno attrattive per gli immigrati altamente qualificati. Questo suggerisce come vi sia il bisogno di adottare più ampie riforme.

Le lezioni dall’Europa

In questo contesto, un’attenta analisi dell’esperienza europea può fornire delle lezioni utili. La prima – di lunga la più sorprendente – è che promuovere l’immigrazione compensa le sfide derivanti dall’invecchiamento e dal calo della popolazione. L’Unione europea prevede che l’ammissione di immigrati dovrebbe aiutare i paesi europei a mantenere l’attuale volume della popolazione nel corso di questo secolo. Molti paesi dell’Europa occidentale hanno dei tassi di fertilità al di sotto dei livelli di sostituzione tra i cittadini nativi, ma a differenza del Giappone, hanno usato l’immigrazione per colmare tale scarto. Al contrario, le popolazioni dei paesi dell’Europa centrale e orientale – che generalmente sperimentano alti tassi di emigrazione e tassi di immigrazione molti bassi – hanno subito un calo in anni recenti.

La seconda lezione è che l’immigrazione possa aver ben migliorato la competitività e la crescita economica dell’Europa. Il Global Competitiveness Report, pubblicato annualmente dal World Economic Forum, posiziona costantemente i paesi europei con alti tassi di immigrazione – inclusa la Svizzera, che ha una popolazione straniera del circa 25% – vicino alla vetta delle sue classifiche e, in alcuni casi, al di sopra del Giappone. Malgrado la fine della crisi finanziaria e migratoria, l’Eurozona, dal 2015, ha assistito ad una positiva seppur modesta crescita. I paesi europei più solidi economicamente hanno attivamente cercato lavoratori stranieri, offrendo loro sia salari competitivi sia delle condizioni di vita ottimali, inclusi l’alloggio, corsi di lingua, e altri benefici.

Una terza lezione consiste nel fatto che i vantaggi sovra discussi potranno essere sostenibili solo nel caso in cui il governo implementi delle effettive politiche di integrazione lavorando in collaborazione con la società civile. Su tale aspetto, i paesi dell’Europa occidentale non offrono sicuramente un modello perfetto, ma nella classifica del 2016 del Center for Global Development sulle politiche migratorie degli stati, hanno ottenuto maggiori risultati del Giappone. L’integrazione è un processo multiforme e complesso che richiede impegno da entrambe le parti: gli immigrati devono lavorare per integrarsi nella società di accoglienza e la società deve allungare le braccia per accettarli. Secondo un recente studio dell’Università di Harvard sulle percezioni dell’immigrazione nei paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, la maggior parte delle vede con esagerazione i numeri e l’impatto della popolazione immigrata sul proprio paese. Le persone che conoscono degli immigrati costituiscono una notevole eccezione.

Questi studi suggeriscono come sia necessario che i governi incoraggino un dialogo pubblico aperto sul tema dell’immigrazione e del livello di interazione delle società di accoglienza con i migranti. L’investimento della popolazione nazionale nell’immigrazione dovrebbe essere accompagnato da un processo di integrazione che aiuti gli immigrati a trovare un lavoro, avere accesso ai servizi di alloggio e imparare la lingua locale. Un’altra parte fondamentale di una politica di integrazione di successo è un sano sistema di naturalizzazione. In tal caso, il Giappone rimane uno dei pochi paesi ad implementare una restrittiva politica basata sullo jus sanguinis (ovvero basata sulla nazionalità dei genitori). La Germania ha rivisto la sua legge sullo jus sanguinis nel 2000 al fine di facilitare l’acquisizione della cittadinanza dei residenti stranieri. Di conseguenza, mentre il Giappone “naturalizza” all’incirca 1.000 persone ogni anno, la Germania ne ha naturalizzate 112.211 nel 2017.

Un nuovo Giappone?

Le recenti misure del Giappone per promuovere l’immigrazione lavorativa suggeriscono che il paese stia preferendo adottare una serie di misure ad hoc piuttosto che implementare una strategia coerente. La dichiarazione del Primo Ministro Shinzo Abe di febbraio 2018 secondo cui il suo governo “non ha intenzione di adottare una cosiddetta politica di immigrazione” sostiene questo assunto. Benché sia giusto procedere con cautela, il Giappone beneficerebbe di un dialogo pubblico aperto su immigrazione e identità nazionale, data la percezione di molti cittadini giapponesi di un paese culturalmente e etnicamente omogeneo.

Il Giappone deve resistere alla tentazione di vedere l’Europa come un mero esempio delle conseguenze socio-politiche negative dell’immigrazione. Imparando dall’esperienza europea, il paese può godere degli aspetti positivi dell’immigrazione. Inoltre, Europa e Giappone potrebbero beneficiare l’un l’altro di consultazioni dirette sulla questione, sfruttando i forum per la cooperazione che hanno creato sotto il recente Strategic Partnership Agreement (SPA).

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