Libia: la violenza continua

A Tripoli, l’avanzata delle milizie modifica l’assetto del potere e ostacola l’avanzata verso nuove elezioni. L’Europa deve porre fine alle controversie e capire l’entità dello stato degli affari in Libia.

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La crisi in Libia ha imboccato una direzione pericolosa da quando, la scorsa settimana, la violenza è esplosa a Tripoli. Le milizie provenienti dal nord-ovest della Libia hanno fatto irruzione nella capitale, allo scopo di rimpiazzare il cartello di quattro milizie che precedentemente aveva il pieno controllo della città. Da allora, la controffensiva dei membri del cartello ha permesso di recuperare terreno. Tuttavia, la loro egemonia può senza dubbio considerarsi terminata.

Non si deve sottovalutare il significato di un evento del genere: esso costituisce un cambiamento paradigmatico nello scenario politico e di sicurezza libico. La mossa delle milizie sovverte completamente la visione europea di un  miglioramento della sicurezza a Tripoli, e della possibilità che la Libia possa dunque avviarsi verso un nuovo processo politico e future elezioni. Attualmente, appare sempre meno probabile che le elezioni sostenute dalla Francia, e previste per la fine dell’anno, abbiano effettivamente luogo. Ciononostante, e in modo molto più preoccupante, la capitale potrebbe entrare in un nuovo conflitto, molto più distruttivo, nel caso in cui la tregua conclusa con le forze della missione UNSMIL non sia rispettata tempestivamente, inclusa anche l’organizzazione di un nuovo sistema di sicurezza per i nuovi arrivati a Tripoli.

Presumibilmente, la violenza produrrà effetti duraturi sul modo in cui Tripoli è divisa, sulla sua sicurezza, e sulla definizione di un più ampio processo politico nel paese. Un voto libero e imparziale appare oggi impossibile. Inoltre, questa violenza mette in luce l’inadeguatezza della narrativa binaria dominante a proposito della Libia, che pone in netto contrasto l’est con l’ovest del paese. Ciò suggerirebbe che chi desidera ristabilire la pace in Libia dovrebbe considerare la complessità della regione e fare i conti con le numerose linee di frattura che la attraversano. Altrimenti, sarà impossibile dare forma a risposte politiche efficaci per le numerose crisi in corso.

Gli strumenti della politica

Questa nuova escalation di violenza si è alimentata per l’intero anno, sin da quando i poteri centrali nella Libia occidentale, Misurata e Zintan, hanno accantonato le proprie differenze per stabilire un’alleanza più ampia, incorporando le milizie delle cittadine locali e dei monti Nafusa.

Non è ancora chiaro cosa abbia scatenato l’improvvisa avanzata della Settima Brigata da Tarhoura verso il sud di Tripoli, la scorsa settimana. Ufficialmente, le milizie hanno giustificato l’invasione sulla base dell’evidente corruzione del cartello e del Governo di Accordo Nazionale, e del parallelo declino della qualità della vita dei cittadini a Tripoli.

Una dichiarazione da parte del Portavoce della Camera dei Deputati potrebbe aver rappresentato il movente politico: Aguileh Salah ha annunciato i piani della Camera di procedere verso le elezioni presidenziali non prima di un referendum costituzionale. Nonostante la retorica volutamente altruista, la milizia sembra puntare ad istituzionalizzare il proprio ruolo nella capitale come principale dispensatore di sicurezza. Ciò rafforza il suo potere negoziale a fronte di qualsiasi cambiamento nella bilancia dei poteri, consentendo l’accesso alle stessi reti fraudolente utilizzate dal cartello.

Inizialmente, sembrava che lo stesso Primo Ministro avrebbe dovuto dimettersi. All’indomani delle violenze, i membri del Consiglio Superiore di Stato e della Camera dei Deputati si sono riuniti e hanno deciso di presentare una richiesta formale per rimuovere dall’incarico il Primo Ministro e Presidente del Consiglio Presidenziale Fayez al-Serraj, per portare la situazione a proprio vantaggio. Entrambi speravano di rimpiazzare Serraj con qualcuno di più affine alla propria fazione, o che ne fosse addirittura membro. Volevano inoltre dirottare il processo politico lontano dalla possibilità di nuove elezioni, verso la formazione, al contrario, di un rinnovato Consiglio Presidenziale. Una mossa del genere avrebbe loro risparmiato la sconfitta alle urne. Tuttavia, alla resa dei conti, non sono stati capaci di concordare, tra loro, una strategia efficace per rimuovere il Primo Ministro.

Nel frattempo, Serraj resta in carica e risponde agli eventi in atto cercando di istituire una tregua ad-hoc tra la Settimana Brigata e le milizie tripolitane, invitando quelle di Zintan e Misurata nella capitale come garanti dell’accordo. Le milizie di Zintan hanno immediatamente preso posizione ad ovest della città, ma l’orientamento di Misurata resta più complesso: molte sue milizie combattono al fianco della Settima Brigata, tuttavia le principali forze della città sono più prudenti nell’immischiarsi. E l’alleanza di Misurata Bunyan al-Marsous che ha allontanato l’ISIS da Sirte nel 2015 è stata ugualmente cauta. La Forza contro il terrore, che fa parte della Bunyan al-Marsous, ha continuato l’avanzata verso Tripoli solo dopo un secondo invito da parte di Serraj.

Verso una maggiore instabilità?

I tentativi di deporre Serraj potrebbero condurre ad un nuovo accordo a livello esecutivo. È inoltre probabile che questo accordo porti ad una nuova configurazione del Consiglio di Presidenza, la cui composizione potrà essere negoziata tra il campo del Generale Haftar nella Libia dell’est e i nuovi detentori del potere a Tripoli.

Haftar si limita a lanciare segnali da bordocampo, tentando di salvaguardare il proprio rilievo politico nonostante l’impossibilità di intervenire militarmente o di influenzare gli attuali sviluppi sul territorio. Sicuramente, cercherà di sfruttare la situazione a proprio vantaggio rafforzando l’idea secondo cui Tripoli è impantanata in un caos, dovuto alle milizie, che facilita la corruzione, o ciò che è stato definito “il Daesh della finanza pubblica”.

Eppure, se infine la situazione permettesse alle milizie di Zintan e Misurata di rafforzare le proprie posizioni nella capitale, Haftar potrebbe avere molte più difficoltà ad espandere la propria influenza da lì. Un tale consolidamento limiterebbe le sue opzioni e renderebbe i negoziati diretti tra la sua base e i nuovi signori di Tripoli  l’unica strada credibile per porre fine allo status quo.

Intanto, la posizione di Serraj è precaria, ma non può ancora dirsi spacciato. Ha infatti dimostrato una grande abilità di sopravvivenza politica e, dal momento che i suoi avversari hanno già fallito nell’accordarsi su un possibile rimpiazzo, potrebbe ancora riuscire a navigare queste acque agitate. Invitando le forze di Zintan e Misrata nella capitale, Serraj sta cercando di riguadagnare l’iniziativa e di convincere i detentori del potere in Libia occidentale a sostenere il suo governo, piuttosto che combatterlo.

Il bisogno di mediazione esterna

Attualmente, Tripoli deve affrontare la prospettiva di una nuova, e profondamente instabile, struttura di sicurezza. Un accordo informale tra tutte le parti del conflitto potrebbe infine materializzarsi, fissando i vantaggi di breve termine per coloro che ne fanno parte. Ma è improbabile che un accordo del genere risulti sostenibile, e il rischio della continuazione del conflitto per il controllo locale resta alto. Prolungata rivalità e violenza potrebbe inoltre offrire margine di manovra per un aumento dei flussi migratori, una possibilità di cui lo Stato Islamico si avvarrebbe per raggruppare le proprie forze.

Gli attori internazionali dovrebbero osservare lo sviluppo  del sistema di sicurezza a Tripoli come uno dei pochi punti di accesso attraverso cui stabilizzare il paese e assicurare che le istituzioni governative continuino a funzionare.

Martedì, UNSMIL ha riunito molti dei belligeranti contribuendo alla conclusione di una tregua che aprisse le porte a tentativi più concreti di negoziato sul tema della sicurezza nella città. Ciononostante, per scongiurare il rischio di un accordo a breve termine che sostenga gli obiettivi opportunistici di alcune delle parti,  UNSMIL dovrebbe definire la struttura per un accordo più stabile con l’esplicito supporto e competenze dei suoi sostenitori principali: Stati Uniti, Francia, Italia e Regno Unito. Questo dovrebbe permettere un avanzamento nel breve periodo verso l’implementazione dei provvedimenti sulla sicurezza sanciti dall’Accordo politico libico del 2015, o verso altri meccanismi che garantiscano alle istituzioni di funzionare in uno spazio sicuro.

La nuova esplosione di violenza in Libia dovrebbe servire da lucido promemoria per le sfide che il paese si trova ad affrontare, e per i pericoli derivanti dal precipitare l’organizzazione di un processo elettorale ancora acerbo. Andare al voto in un clima del genere produrrebbe maggiore violenza ed ulteriori escalation. Oltre i confini libici, un’aperta rivalità tra Italia e Francia continua senza sosta, anche in vista della conferenza di Roma, che si presenta antitetica rispetto a quella di Parigi tenutasi a maggio. Tali divisioni continueranno ad ostacolare un’effettiva risposta europea, distraendo il continente dal dovere di capire realmente le dinamiche in atto in Libia, e limitando le possibilità di riportare la stabilità nel paese.

È tempo per l’Europa di unirsi e ridefinire una proposta comune per la Libia, a vantaggio di tutti i partiti europei e dei cittadini libici tutt’ora afflitti da un caos in peggioramento. 

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