Tre governi, decine di milizie armate e una sola ambasciata (quella italiana) presente sul territorio. Geopoliticamente lo scenario libico è fra i più intricati a livello globale. Mattia Toaldo, analista senior dell’European Council on Foreign Relations, spiega il perché.

Qual è la situazione politica attuale in Libia?

«Il Paese è diviso in tre governi: il “Governo di Accordo Nazionale” di Fayez al-Sarraj a Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, inclusa l’Italia; il regime del generale Khalifa Haftar, vicino all’Egitto, nell’est del Paese; un “Governo di Salvezza Nazionale” non riconosciuto e basato a Tripoli, vicino agli islamisti radicali e guidato da Khalifa Ghwell. C’è un accordo Onu firmato a dicembre 2015 che ha portato alla nascita del governo Sarraj, ma gli altri due governi non l’hanno mai accettato. Nessuno dei tre governi ha una forte presa sul Paese e, se questa è la “mappa politica”, quella che conta davvero è quella militare dei diversi gruppi che controllano porzioni di territorio».

Quanto influiscono le bande armate sulla crisi?

«Molto. Ci sono decine di milizie e circa 200mila miliziani che in maggior parte ricevono uno stipendio statale. Questi gruppi armati non hanno esitato in passato ad assaltare le sedi governative per affermare la loro supremazia. Nel caso del generale Haftar, è lui l’uomo realmente al comando in Cirenaica nonostante esistano formalmente un parlamento e un governo. I gruppi armati si possono dividere in tre categorie: l’LNA (Esercito Nazionale Libico) di Haftar che include pezzi del vecchio esercito di Gheddafi e gruppi anti-islamisti; i gruppi non-arabi nel sud, soprattutto i Tuareg e i Tebu; le milizie delle diverse “città-stato” della Tripolitania a partire da quelle di Misurata e Zintan che ebbero un ruolo chiave nella caduta del colonnello».

Si può arrivare a un accordo tra loro?

«In Tripolitania, ci sono già diversi cessate-il-fuoco locali tra le diverse città-stato. Per esempio, Misurata e Zintan non si affrontano direttamente dal 2014. Nel sud, le tregue sono più instabili e recentemente ne sono state raggiunte alcune con la mediazione della Comunità di Santegidio. Haftar ha dichiarato più volte che il suo obiettivo è liberare il Paese dalle milizie e affermare la supremazia dell’esercito. Quindi è stato riluttante ad aderire a qualsiasi schema che includa le milizie, soprattutto quelle che considera “islamiste”».

Qual è la posizione dell’Italia?

«L’Italia è stato uno dei maggiori protagonisti nella nascita del governo di Sarraj e del relativo accordo Onu, in cooperazione con l’amministrazione Obama. Il ritorno dell’ambasciata italiana a Tripoli, prima e unica sede diplomatica occidentale a riaprire (a Tripoli non c’è neanche l’Onu), è stato un chiaro segnale a riguardo. Allo stesso tempo, fin da quando Gentiloni era ministro degli Esteri, l’Italia ha premuto per un accordo che prevedesse l’inclusione di Haftar, linea confermata da Alfano. Ma recentemente il generale e le sue forze hanno fortemente condannato il ruolo italiano in Libia, arrivando addirittura a rifiutare gli aiuti umanitari che provenivano da Roma».

Quanto cambia lo scenario l’inserimento della Russia?

«Molto. Finora il consenso internazionale era a favore del governo Sarraj soprattutto per la convergenza tra l’amministrazione Obama, l’Italia e la Gran Bretagna: ciascuna a suo modo aveva contribuito alla caduta dell’“emirato” Isis di Sirte. La Russia si è ora aggiunta all’Egitto e agli Emirati Arabi nel sostenere il governo rivale di Haftar, promettendo intanto “tecnici militari” a suo sostegno e poi, se verrà modificato l’embargo Onu sulle armi, anche una fornitura di armamenti del valore di due miliardi di dollari che fu concordata ai tempi di Gheddafi. Non è da escludere che con Trump gli Usa si aggiungano al fronte pro-Haftar in nome della lotta agli islamisti. La visione degli uomini vicini al nuovo presidente, infatti, è che organizzazioni come i Fratelli musulmani non siano diversi da Al Qaeda o Isis, la stessa cosa che pensa il generale».

L’Isis e altri gruppi jihadisti sono ancora una minaccia in Libia?

«L’Isis non ha più un suo territorio e ha subito un duro colpo. Ma gruppi di suoi combattenti sono riusciti a fuggire e potrebbero essere presenti sia nel sud del Paese che, sotto copertura, nelle città della costa. Ci sono poi altri gruppi jihadisti come Ansar Al Sharia a Bengasi o il Consiglio dei Mujahedin di Derna. La Libia ha prodotto tre generazioni di jihadisti a partire dai compagni di armi di Bin Laden nell’Afghanistan degli anni Ottanta. E’ difficile pensare che questa storia si interromperà qui, specie se il Paese sarà di nuovo interessato da una guerra civile».

Mattia Toaldo è analista senior dell’European Council
on Foreign Relations.
Si occupa di Medio Oriente e Nord Africa

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