Gli azzardi e i rischi della proposta di Trump in Medio Oriente: Europa e Italia alla finestra?

La proposta di Trump pone diverse difficoltà per un'iniziativa concreta della comunità internazionale, soprattutto in assenza di una presa di posizione europea e italiana forte alla questione.

“Peace to Prosperity”. È questa la dicitura ufficiale adottata da Donald Trump sul cosiddetto “accordo del secolo”, ossia la proposta di pace statunitense per il Medio Oriente. Il piano è stato presentato il 28 gennaio alla Casa Bianca alla presenza del premier israeliano Benjamin Netanyahu e degli ambasciatori di Oman, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti. Assenti illustri i rappresentanti palestinesi, egiziani, giordani e sauditi, anche se non è chiaro se quest’ultimi, ufficiosamente sponsor dell’iniziativa, abbiano dato forfait per opportunità politica o per reale contrarietà alla proposta USA.

Tra le 181 pagine del documento finale vi sono molti elementi che definiscono il doppio framework operativo, ma almeno quattro fra questi hanno una portata notevole con un impatto politico ben preciso: 1) Israele mantiene la stragrande maggioranza di Gerusalemme come sua capitale sovrana, lasciando ai palestinesi i sobborghi della periferia gerosolimitana (in pratica Abu Dis e dintorni) come loro capitale; 2) i palestinesi non ottengono alcun diritto al ritorno; 3) vengono ridisegnati i confini principalmente tra Israele e Cisgiordania (con i primi che annettono anche la valle del fiume Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% della Cisgiordania, in cambio di piccole aree desertiche nel Negev vicino al confine con il Sinai); 4) è sancita la creazione di uno stato smilitarizzato per i palestinesi. A questi elementi meramente politici si affiancano, inoltre, le disposizioni del perimetro economico, che prevedono, tra le altre cose, investimenti per 50 miliardi di dollari nei territori occupati, senza spiegare bene come e dove verranno investiti questi fondi e senza affrontare i problemi estremi esistenti  come la situazione umanitaria, il collasso nella Striscia di Gaza, o la libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania. L’intero accordo finale dovrà essere negoziato nell’arco temporale di un quadriennio, nel quale gli israeliani si sono impegnati formalmente, seppur senza alcun tipo di vincolo concreto, a congelare qualsiasi nuova costruzione di insediamenti nei territori occupati.

Al di là dei proclami trumpiani sulla creazione di uno stato palestinese indipendente e prospero e sulla retorica propagandistica che vedrebbe una “svolta storica” in grado di garantire pace e stabilità al Medio Oriente intero per oltre 80 anni il piano non sembra prefigurarsi come un atto “equo” o “super-partes”, né tantomeno sembra essere orientato a definire una negoziazione futura nella quale inscrivere delle trattative. Il documento finale così come si presenta definisce delle prescrizioni definitive, riprendendo molte delle indiscrezioni emerse in questi tre anni di attese e preparazioni, confermandosi, quindi, come un piano fortemente improntato a favorire le istanze pro-israeliane grazie anche all’attenta regia di Jared Kushner, genero del presidente e senior advisor dello stesso nel processo di pace mediorientale (MEPP). Di fatto il piano Trump accoglie le richieste israeliane, ignorando tutte le istanze palestinesi e costruendo una narrativa che individua tutte le responsabilità del successo o meno dell’iniziativa solo verso una parte. Un esempio concreto di ciò sono il riconoscimento degli insediamenti come parte integrante della territorialità israeliana, lasciando alla futura entità statale palestinese uno spezzatino territoriale non continuo geograficamente e più simile a dell’enclave in territorio israeliano. In poche parole, la visione del presidente USA enfatizza e celebra le necessità di sicurezza israeliana, sacrificando i diritti palestinesi a un’autodeterminazione. In questa prospettiva è facile intuire come la scelta palestinese di boicottare tale iniziativa non sia del tutto infondata, poiché basata sull’impossibilità di non poter incidere in alcun modo su nessuna clausola tra quelle imposte in quel contratto. Probabilmente tale scelta non porterà ad alcun vantaggio politico per i palestinesi, ma è innegabile il fatto che all’ANP e alle altre entità della galassia palestinese siano rimaste davvero poche opzioni sul terreno.

In questo senso il piano Trump è un qualcosa di totalmente antitetico all’idea stessa degli Accordi di Oslo, per decenni unica road map per la pace. Il piano demolisce non solo la storica posizione americana della soluzione a due stati, ma rifiuta il diritto internazionale che vedeva nella Cisgiordania uno dei territori occupati militarmente da Israele dopo la guerra dei Sei giorni. In sostanza, consiste in una riscrittura della storia e della legalità internazionale per anni basata sulla risoluzione 242/1967 delle Nazioni Unite. Non a caso l’ANP ha minacciato di uscire dagli Accordi di Oslo e ha richiesto un forte impegno da parte della Comunità internazionale (e in particolare dell’Unione Europea) nel riconoscere i futuri confini di uno stato palestinese entro i limiti imposti dalla risoluzione Onu del 1967, con capitale Gerusalemme est. Una posizione che certifica per Washington anche la fine del gioco da honest-broker.  

In questa prospettiva risulta davvero difficile scorgere un ruolo e un’iniziativa concreta per la comunità internazionale, che, con diversi distinguo non ha accettato tout-court il piano statunitense intravedendo in ciò un’azione di forza del presidente Trump. Ancora una volta lascia perplessi l’indecisione europea che non prende una posizione chiara sul merito dei fatti. Bruxelles ha chiarito, per voce del suo alto rappresentante Josep Borrell, che lavorerà con israeliani e palestinesi per un negoziato che porti a un accordo di pace entro i parametri della legalità internazionale – e presumibilmente accettando l’idea dei due stati –, senza spiegare se valuterà e accetterà il piano Trump come base di partenza delle trattative o rigetterà tutto per presentare una propria iniziativa. Ad alimentare la confusione si aggiungono le posizioni differenti dei singoli stati, dove al tradizionale appoggio britannico alla proposta trumpiana fanno da contraltare il silenzio di Francia e Italia sull’argomento e l’equilibrismo diplomatico tedesco, che riconosce nel piano Trump, esattamente come Borrell, un’opportunità storica per il rilancio del piano di pace senza però intravedere concretamente un’iniziativa alternativa o autonoma dell’UE in quanto soggetto politico. Fa ancora più specie l’assenza chiara di una posizione italiana, storicamente interessata alla questione israelo-palestinese e da tempo oscillante tra la volontà di mantenere buoni rapporti con entrambe le parti e l’esigenza di tutelare alcuni interessi strategici specifici (energia, sicurezza, cyber, tecnologia), che da almeno un decennio lega in maniera particolare l’Italia a Israele. Una posizione dissonnante figlia anche delle differenze di visione politica esistenti sia all’interno della maggioranza, sia nelle opposizioni, con diversi partiti tradizionalmente più pro-Israele (tra i quali Forza Italia, i Radicali, l’attuale corso della Lega e una parte del PD) e un supporto più culturale che politico alla causa palestinese. In questa prospettiva, il rumoroso silenzio italiano è la conferma di una visione di Roma un po’ troppo schiacciata nei confronti degli Stati Uniti, anche per questioni di opportunità dettate sia dalla scarsa rilevanza internazionale del paese nell’attuale contesto mondiale, sia per gli stretti interessi che legano Italia e USA su diversi scenari nell’area MENA: dalla Libia all’Iraq, passando per le scoperte energetiche nel Mediterraneo orientale.

Cosa possiamo, dunque, desumere dall’iniziativa Trump sul Medio Oriente? Oltre a trovare giustificazione nelle scelte elettorali dei due proponenti (in Israele si vota il 2 marzo, mentre negli USA si andrà al voto in novembre), il piano così come è stato impostato assomiglia piuttosto ad un’iniziativa Trump-Netanyahu, nella quale i due leader usano pretestuosamente il MEPP per distogliere l’attenzione pubblica interna e internazionale dai rispettivi guai giudiziari puntando ad imporre una proposta unilaterale e blindata, nella quale non si scorgono opzioni alternative. Di fatto l’accordo del secolo somiglia più ad un azzardo politico che ad una vero e proprio tentativo di risolvere una volta e per tutte il più antico conflitto internazionale, affrontando alle radici i problemi esistenti. In conclusione il rischio non è di trovarci davanti ad una “visione di pace” ma all’inizio di una nuova fase di conflitto, non solo politico, nella quale il piano non rappresenta una base negoziale ma la fine di un processo da accettare a scatola chiusa.

 

Giuseppe Dentice è dottorando di ricerca all'Università Cattolica del Sacro Cuore e Associate Research Fellow nel programma Mediterraneo e Medio Oriente presso ISPI.

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