Il Mar Cinese Meridionale rischia di essere uno dei punti più caldi di una crisi tra Cina e Stati Uniti. Le acque rivendicate da Pechino sono una regione strategica: in profondità potrebbero esserci giacimenti di petrolio e di gas naturale, la zona è una riserva per la pesca e in quel tratto di mare ogni anno transitano merci per un valore di cinquemila miliardi di dollari. Chi controlla il Mar Cinese Meridionale, controlla le principali rotte commerciali internazionali. Per rafforzare le proprie rivendicazioni, negli ultimi anni la Cina ha costruito isole artificiali su cui sorgono imponenti istallazioni militari: batterie anti-nave e piste di atterraggio per jet. Sulla base di mappe pubblicate alla fine degli anni ’40, Pechino reclama come parte del proprio territorio circa il 90% del Mar Cinese Meridionale. L’intera area all’interno della «linea a nove tratti» - un tratto di mare lontano anche oltre 2.000 chilometri dalla costa cinese - dove avanzano rivendicazioni altri Paesi del Sud-est asiatico: Filippine, Vietnam, Malesia, Indonesia, Brunei e Taiwan. Dopo un ricorso presentato dalle Filippine, nel luglio dello scorso anno il Tribunale Permanente di Arbitrato dell’Aja ha stabilito che la «linea a nove tratti» rappresenta una violazione del diritto internazionale. La Convezione sulla Legge del Mare - firmata anche da Pechino - fissa a 200 miglia dalla linea della costa la Zona Economica Esclusiva (EEZ) all’interno della quale un paese gode di pieni diritti di esplorazione. Secondo il tribunale Onu, per ragioni geografiche, le isole e gli scogli rivendicati dalla Cina non possono essere la base per una EEZ. Per capirne di più abbiamo intervistato François Godement, direttore del Programma Asia e Cina dello European Council on Foreign Relations.

Negli ultimi anni si assiste a prese di posizioni sempre più dure da parte di Pechino sul Mar Cinese Meridionale. Come si spiega quest’aumento dell’assertività?

«Le rivendicazioni sul Mar Cinese Meridionale esistono fin dagli anni ’80. Però, dopo decenni di forti aumenti nel budget della difesa (destinati soprattutto alla Marina), ora la Cina ha acquisito gli strumenti per far valere queste rivendicazioni. Pechino ha fatto affidamento anche su altri fattori: i rapporti economici e commerciali, il fatto evidente che la Cina sarà sempre più forte, la riluttanza futura degli Stati Uniti a iniziare un conflitto per piccole isole e gruppi di scogli».

Quali sono le origini di questo stallo?

«Tagliando con l’accetta, il fatto che queste aree non siano state assegnate. La Cina le rivendica su basi storiche: navigatori, mercanti e persino la flotta cinese si sono trovati in quelle aree per alcuni periodi di epoca imperiale. Questo però vale anche per altri Paesi. Il Mar Cinese Meridionale è stato solcato da molti ed è considerato come il Mediterraneo dell’Asia. Alla fine della dinastia Qing e per gran parte del periodo repubblicano la Cina però sembrava essersene dimenticata. È stato solo a partire dal 1947 - quando è stata tracciata la “linea a undici tratti”, poi diventata la “linea a nove tratti” - che la Cina ha iniziato a reclamare quest’area».

Che interessi ha la Cina nel Mar Cinese Meridionale?

«L’interesse è strategico. Pechino vuole fornire profondità strategica alla Marina cinese, mentre progressivamente nega l’accesso alle forze armate degli Stati Uniti e ingabbia i Paesi vicini in un’area sempre più limitata. Ci sono anche interessi economici: la pesca, il potenziale di idrocarburi e altre risorse energetiche. Infine, per Pechino, c’è un interesse ideologico: alimentare il nazionalismo cinese».

Pur senza entrare nel merito delle dispute territoriali, Washington ha sempre messo il principio della libertà di navigazione al centro del dibattito. Che cosa dobbiamo aspettarci dall’amministrazione Usa?

«È difficile leggere le intenzioni dell’amministrazione Trump. Bisogna però notare che negli ultimi mesi è aumentata la frequenza delle esercitazioni di Freedom of Navigation (FoN) nel Mar Cinese Meridionale, anche all’interno delle 12 miglia dalle isole rivendicate dalla Cina (negando così le pretese di sovranità di Pechino). Tuttavia Donald Trump, così come il predecessore Obama, non vuole lanciarsi in un conflitto che potrebbe portare a un’escalation».

L’Unione Europea appare piuttosto timida su questa crisi

«Il Consiglio dell’Unione Europa ha approvato una risoluzione in sostegno al verdetto dell’Aja e al diritto internazionale. Non si cita però la Cina a causa delle divisioni tra gli Stati europei. L’Ungheria e in una certa misura la Grecia sono state “influenzate” da Pechino. La Francia è attiva con pattugliamenti per la libertà di navigazione (sebbene, a differenza degli Stati Uniti, non superi la linea delle 12 miglia dalle isole rivendicate dalla Cina). Anche la Gran Bretagna si è unita a queste esercitazioni, seppur in tono minore. Altri Paesi sono invece completamente assenti».

François Godement è direttore del Programma Asia e Cina dello European Council on Foreign Relations

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