La fine del concetto di “Occidente”?

L’occidente è sempre più diviso con gli interessi strategici  a livello globale sempre più contrastanti. L’impatto del  Presidente americano su visioni e fiducia transatlantica è significativo.

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“Voi europei  venite in questa città a farci la predica, a lamentarvi  e ad accusare, e poi vi aspetatte la nostra protezione”  mi diceva un collega americano in un recente viaggio a Washington.  La sua durezza,  niente di nuovo in forma e sostanza, tuttavia mi sorprese,  vista la nostra conoscenza di lunga data, dai tempi dell’espansione della  NATO  in Europa centrale.

Il mio collega era un convinto ottimista a quei tempi, nello spirito degli anni, per espandere il termine “transatlantico”, molto “occidentale”. 

L’ottimismo dei primi anni 2000 calzava a pennello con il concetto di Occidente come un concetto di  futuro, in opposizione al decadente impero Sovietico, la vittoria finale della democrazia liberale, in breve, la Fine della Storia.

Per qualcuno proveniente dall’Europa centro- orientale quella sorta di ottimismo  appariva come abbastanza naturale. Eravamo stati testimomi della caduta di regimi totalitari indesiderati, l’ascesa delle società civili e la volontà  del mondo libero di abbracciare un futuro comune.

La transizione, per quanto dolorosa, fu ben accolta perché significava “ritornare in Europa”, con gli Stati Uniti a completare il quadro di un prospero, creativo ed unito Occidente.

L’entusiastica immagine dell’Occidente era già stata pesantemente intaccata nel 2002, nel periodo antecedente la Guerra in Iraq, quando Robert Kagan notoriamente scrisse: “(…) il fatto è che europei ed americani non condividono più un punto di vista comune sul mondo. Su tutte le questioni importanti di potere – la sua utilità e moralità – europei e americani hanno approcci divergenti.” Kagan sosteneva come, sin dalla fine della Guerra Fredda, Europa e Stati Uniti avessero sviluppato punti di vista profondamente diversi già su cosa il mondo fosse e come sarebbe dovuto essere: per gli europei  un  sistema basato sulle regole, per gli americani una realtà caotica richiedente l’esercizio di hard power.

L’attuale risentimento del mio collega di Washington mi sorprendeva, nei primi anni 2000 non sembrava preoccupato dalla rottura Marte/Venere. Lui, come molti altri, la vedeva come un’opportunità per  colmare un divario, calibrare punti di vista, contribuire intellettualmente alla struttura della fiducia transatlantica ed al senso di appartenenza all’Occidente.

Oggi ho realizzato che quell’ampia struttura era sparita. La relazione euro-americana può aprire ad ostilità e sfiducia – e, mentre nel giudizio di Kagan del 2002 su entrambe le prospettive, quella americana sembrava aver fatto meglio presa sulle realtà globali, nel 2018 sta venendo meno ogni genere di sforzo intellettuale da parte degli Stati Uniti nel rispondervi.

La natura anti-intellettuale del dibattito a Washington è impressionante e si focalizza su di una persona, il presidente americano, il cui egoismo e superficialità, disprezzo per partners ed istituzioni è senza precedenti. L’amministrazione ed il Presidente parlano lingue diverse, e l’esperienza occidentale di politica estera del dopoguerra è svanita.

Esiste una strategia di sicurezza nazionale, nata dalla Casa Bianca di Trump, ma  “dissociata dalla realtà della presidenza Trump”, “un puro esercizio accademico”. La principale domanda cui la strategia non risponde riguarda quali siano le vere priorità dell’amministrazione, dal momento che il documento è in estrema opposizione con le dichiarazioni di Trump su argomenti chiave. Per esempio, la strategia promuoveva l’unità americana ed europea contro la comune minaccia di Mosca. La “Russia”, dichiara, “sta usando misure sovversive per indebolire la credibilità dell’impegno americano in Europa, minare l’unità transatlantica, ed indebolire istituzioni e governi europei. Per contrastare ciò, “Gli Stati Uniti e l’Europa lavoreranno insieme per rispondere all’eversione e aggressione della Russia”, riaffermando anche che “gli Stati Uniti rimangono fedeli all’articolo V del Trattato di Washington,” che vincola l’America alla difesa dei suoi alleati NATO.

Il dibattito di Trump sulla NATO, al contrario, ha omesso ogni tipo di riferimento ad una minaccia Russa e si è focalizzata esclusivamente sulla minaccia posta dagli alleati “fannulloni”. ”Non permetterò agli stati membri di essere negligenti nel pagamento mentre noi garantiamo la loro sicurezza e siamo disposti a combattere guerre per loro” si è vantato. Diversamente dalla Strategia per la Sicurezza Nazionale, Trump non ha fatto riferimenti nel suo discorso riguardo gli obblighi americani nell’ambito dell’art.5.

Alcuni funzionari americani hanno recentemente provato a colmare il crescente divario tra le posizioni del Presidente e dell’Amministrazione. Guardare alla politica e analizzarla senza alcuna emozione, senza non prestare attenzione ai rumori di sottofondo e alle conseguenze, è stato il messaggio per l’UE durante gli incontri a porte chiuse.

Ma il fatto che in uno studio del Pew Research del 2017,  il 75% degli intervistati in 37 paesi diversi abbiamo descritto Trump come un arrogante rende impossibile separare il messaggio dal mittente.

Ancora più sconcertanti sono i risultati di un rapporto sull’opinione pubblica americana e tedesca. Lo studio ha mostrato che “se all’incirca due americani su tre descrivono le relazioni come buone, il 56% dei tedeschi condividono il punto di vista opposto”. In questo caso l’élite tedesca e l’opinione pubblica sono probabilmente sulla stessa lunghezza d’onda; tuttavia ciò che i politici tedeschi capiscono fin troppo bene è l’estrema importanza della rapporto in ambito di sicurezza e difesa con gli US – un punto di vista condiviso solo dal 16% dei tedeschi.

La Conferenza per la Sicurezza di Monaco di quest’anno ha sottolineato la natura rischiosa dell’attuale caotica multipolarità, in combinazione con l’enorme spesa per la difesa americana e l’affidabile struttura transatlantica (‘The world is on the brick’).

Tuttavia alcuni sperano che la scomparsa dell’ottimistico concetto di Occidente non sia solo negativo: dovrebbe dare il via a coordinati sforzi nel creare una difesa europea. Un sondaggio commissionato da MSC e McKinsey mostra che la maggioranza come la maggioranza degli europei desiderino che le loro forze armate siano dispiegate oltre i confini nazionali, preferibilmente nel mondo.

Inoltre, la buona notizia è che l’ondata di Trump non si è tradotta in un rafforzamento di nazionalismi e populismi in Europa. Come ha scritto Natalie Nougayrede, il suo effetto a lungo termine potrebbe essere di rafforzare gli Euroliberali, inaugurando un dibattito in Europa sul senso del transatlanticismo. E’ ancora poco chiara la risposta americana all’invito di Putin per una strategica corsa agli armamenti. E dopo l’annuncio di Trump sulle misure protezionistiche, una guerra commerciale sembra in avvicinamento. Come è possibile essere transatlantici di questi tempi?

Reagan, Trump e l’Impero del Male.

Fedeli americanofili dall’Europa centrale e dell’est ancora ricordano Reagan, il presidente americano che sconfisse l’impero del male. Il suo slogan per le elezioni era simile a quello di Trump, ‘Let’s make America great again’, e durante il primo anno introdusse il taglio delle tasse e alzò la spesa militare (che a sua volta attirò l’Unione Sovietica nell’abisso economico). Ad ogni modo, la combinazione di queste politiche portarono ad un’esplosione del deficit, arrivando a circa il 6% del PIL nel 1983 – un strada che Trump ha intrapreso nel farsi prestare quasi 1miliardo di dollari durante l’ultimo anno fiscale.

Reagan cercò anche di imporre elementi di protezionismo, ma contrariamente a Trump oggi, Reagan aveva negoziato queste fasi con i suoi partner europei prima di adottarle (e di rimuoverle velocemente poco dopo). Oggi, con le crescenti tariffe sull’acciaio, il governo federale americano sta per allontanare anche i suoi partner piu stretti, il Canada, come anche un certo numero di governi europei. Un simile schema è emerso attorno la recente adozione di sanzioni contro la Russia da parte del Congresso: tutto è avvenuto senza consultazioni con l’UE, nonostante le relazioni economiche tra europei e russi siano di gran lunga più significative di quelle russo-americane.

Il parallelo con Reagan è probabilmente il più pregnante in relazione alla Russia. Mentre la sua politica aveva il chiaro obiettivo di “scrivere la pagina finale della storia dell’Unione Sovietica”, Trump è oltremodo ambiguo. Sull’argomento, non solo Trump si schiera contro la sua aggressiva amministrazione; addirittura la sua ambiguità sul coinvolgimento della Russia nelle elezioni presidenziali americane ha consolidato una maggioranza transpartitica contro di lui.

La schizofrenia di Washington non sembra infastidire leader in Polonia o Ungheria. Il supporto americano in Polonia ha soddisfatto le aspettative di Varsavia in termini di sicurezza. La leadership polacca è ora preoccupata di dover rassicurare la sua controparte americana che “niente” accadrà quando la legge contro il ruolo della Polonia nell’Olocausto, legge altamente  criticata, diventerà effettiva. I polacchi, ovviamente, sono grati a Reagan per aver sconfitto il comunismo, promuovendo libertà e principi democratici (Reagan fu insignito post-mortem dalla più alta onorificenza per gli stranieri – l’ordine dell’aquila bianca – dal presidente Lech Kaczynski nel 2007). Oggi, Jaroslaw Kaczynski potrebbe rapportarsi al populismo di Trump, ma l’ambigua crociata di Trump contro la democrazia liberale va in realtà contro l’eredità di Reagan in Polonia.

A Budapest, il morbido autocrate Orban aveva celebrato la vittoria di Trump. Ma le sue speranze per una relazione più stretta devono ancora concretizzarsi: a causa delle sue simpatizzanti posizioni nei confronti di Putin ed il suo (abbastanza di successo) tentativo di transfromare l’Ungheria ad immagine della Russia di Putin, un invito alla Casa Bianca è per ora stato negato dal suo staff. Con il rammarico di Orban, l’Ungheria non è abbastanza importante per diventare ‘Chefsache’. 

Ciò che Kaczynski, Orban e Trump condividono, oltre alla capacità di parlare per conto delle persone del risentimento verso il neoliberalismo, è la mancanza di amore per la Germania della Merkel. Affianco alla statua di Reagan nella Piazza della Libertà di Budapest è stato eletto un nuovo monumento per le vittime in Ungheria dell’occupazione nazista. Nella versione più positiva il monumento è stato interpretato dai critici come un tentativo di sorvolare su la complicità ungherese nella tragedia della Guerra, tuttavia è principalmente espressione del nuovo nazionalismo ungherese. Il duro contrasto tra la chiamata di Reagan alla riunificazione (‘Mr Gorbachov, tear down this wall!’) e l’isolazionismo di Orban che ha effettivamente costruito un muro contro i migranti, mostra ancora l’inconsistenza del parallelo Reagan-Trump nelle relazioni tre UE e Stati Uniti.

La presidenza di Donald Trump avrà indubbiamente implicazioni durature sull’Europa, sulla relazione transatlantiche e sul mondo, e questi effetti avranno probabili conseguenze oltre il suo mandato, su sicurezza globale, sistema di commercio internazionale e governance globale.

Ma è già un fatto  che la distruzione del concetto di occidente sia vicinia. Ciò potrebbe anche esser avvenuto nelle prime fasi della sorprendente vittoria di Trump, e sarebbe anche potuto accadere  con un’altra candidatura, ma la verità è che il 45esimo presidente degli Stati Uniti ha infuso sfiducia, favorito ostilità e intrapreso azioni che minano fondamentalmente questo concetto. Se esiste un modo per tornare indietro, è difficile da intraprendere.

Questa analisi è stata originariamente pubblicata su Heinrich-Böll-Stiftung European Union nel Marzo 2017.

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