I sei problemi della strategia anti-ISIS di Trump

Analizzando la politica estera della presidenza Trump, il quadro che emerge è quello di un’amministrazione risolutamente concentrata sull’imporre sconfitte militari, a discapito di dinamiche politiche più complesse, necessarie per sostenere soluzioni sostenibili.

I sei problemi della strategia anti-ISIS di Trump

Analizzando la politica estera della presidenza Trump, il quadro che emerge è quello di un’amministrazione risolutamente concentrata sull’imporre sconfitte militari, a discapito di dinamiche politiche più complesse, necessarie per sostenere soluzioni sostenibili.

A quasi tre mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, Trump non ha ancora messo a punto la una strategia per sconfiggere l’ISIS, accrescendo così le difficoltà dei partner europei che cercano di adattare le proprie posizioni alle mutate priorità americane. Nel corso del vertice anti-ISIS di Washington dello scorso marzo, il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc Ayrault, ha espresso la propria frustrazione riguardo l’assenza di maggiori dettagli sull’approccio dell’amministrazione Trump circa la battaglia per Raqqa.

Tuttavia, numerosi sono già i segnali che dovrebbero aiutare l’Europa a comprendere quale direzione seguirà Trump. Questi segnali non sono positivi. Evidenti cambiamenti sollevano seri interrogativi circa l’efficacia a lungo termine della strategia di Trump. Per gli Stati europei, ciò avrebbe già dovuto determinare una serie di conseguenze sulle strategie e sulle aree da prioritizzare.

  1. Regole d’ingaggio flessibili

Nel tentativo di ottenere un rafforzamento dell’impegno militare americano nella lotta contro l’ISIS, l’amministrazione Trump sta puntando regole d’ingaggio più flessibili.  Tale cambiamento di policy, i cui elementi avevano già ottenuto l’approvazione del Presidente Obama alla fine dello scorso anno, ma che ora vengono portati avanti più aggressivamente dalla nuova amministrazione Trump, ha portato ad un aumento sostanziale delle vittime civili. Secondo Airwars, un’organizzazione di monitoraggio degli attacchi aerei, a marzo le vittime dei bombardamenti americani in Iraq e Siria ammonterebbe a 1.200 civili. A questo si aggiunge l’aumento del numero di morti in Yemen. Benché questo approccio consenta all’esercito statunitense di colpire l’ISIS più liberamente, è probabile che si riveli controproducente, alimentando risentimenti locali e favorendo la narrativa dell’ISIS. È ormai appurato come conquistare cuori e menti della comunità locale sia la chiave per le operazioni di counter-insurgency di successo. Tuttavia, questo cambiamento dell’amministrazione Trump suggerisce come la coalizione possa dirigersi nella direzione opposta.

  1. Scarsa attenzione per le questioni di governance

L’ISIS è nato e si è sviluppato come diretta conseguenza delle lotte politiche che hanno spinto Iraq, Siria, Libia e Yemen verso la guerra civile. L’ISIS ha sfruttato le condizioni di conflitto e i vuoti di potere statale per piantare la propria bandiera nella regione. Senza accordi politici che mitighino i livelli di violenza e ripristinino i servizi di governance, non v’è alcuna speranza di ridurre le capacità del gruppo a livelli più sostenibili. Mentre John Kerry ha dedicato uno sforzo considerevole ai negoziati nella regione, l’amministrazione Trump si è visibilmente disimpegnata dai vari processi politici, non mostrando alcuna inclinazione a lasciarsi coinvolgere nell’affrontare i problemi di fondo che alimentano il collasso dell’apparato statale della regione.

I tagli di bilancio della Casa Bianca al Dipartimento di Stato e al USAID – pari a 26,5 miliardi di dollari – avranno anche un impatto sull’allocazione delle risorse per gli sforzi di stabilizzazione post-conflitto, non solo nel periodo immediatamente successivo all’eventuale perdita di controllo da parte dell’ISIS, ma forse ancora più importante negli anni a venire, quando l'attenzione si affievolirà. Tuttavia, un sostegno constante rimarrà un fattore cruciale. La chiave per sconfiggere l’ISIS, e prevenire nuove evoluzioni dell’estremismo consiste nel sostenere i leader locali fornendo nuove soluzioni per la ripresa dei vari attori in loco, inclusi quelli economici. Mosul e Raqqa, in particolare, avranno bisogno di un impegno considerevole in termini di sforzi ed energie. Sebbene nel corso del summit di fine marzo il Segretario di Stato americano Rex Tillerson abbia riconosciuto la necessità di sforzi di stabilizzazione a lungo termine, i numeri mostrano una realtà ben diversa.

  1. Tensione incalzante con l’Iran

L'amministrazione Trump è animata da un viscerale sentimento anti-Iran. Ciò deriva in parte dalle esperienze pregresse di alcune delle figure di vertice dell’amministrazione, coinvolte nella sicurezza in Iraq nel corso degli ultimi 14 anni, e in parte dal desiderio di differenziarsi dalla politica estera di Obama, vista da alcuni come troppo accomodante. Un’escalation contro Teheran andrebbe a distogliere l’attenzione dagli sforzi anti-ISIS e provocherebbe una risposta prevedibile. Sono stati già documentati casi di presenza militare iraniana in Yemen, in risposta ad una posizione di rafforzamento degli Stati Uniti. In Iraq, questo approccio rischia di intensificare gli sforzi di Teheran di rafforzare la propria influenza sulle istituzioni politiche e di sicurezza del paese. L'Iran è chiaramente un attore regionale problematico che ha svolto un ruolo diretto nell’alimentare il risentimento alla base della nascita dell’ISIS, tuttavia è improbabile che aumentare le rivalità possa fornire risultati costruttivi.

  1. Le truppe in Siria

Il continuo fallimento degli interventi occidentali in Medio Oriente nel corso degli ultimi 15 anni,  mostra chiaramente come i combattimenti regionali debbano essere vinti da attori locali, e come la centralità locale sia stata fondamentale nello sforzo anti-ISIS degli ultimi tempi. Trump vuole ora dispiegare un numero significativo di truppe di terra americane in Siria (con alcune frange del governo di Washington che premono per l’invio di migliaia di soldati), a complemento delle poche centinaia di forze speciali già presenti nel paese. Questa strategia che potrebbe fornire risultati immediati in termini di miglioramento della capacità, di targeting e di efficacia, è probabilmente destinata a fallire in una prospettiva di lungo periodo. Le truppe occidentali (Trump potrebbe anche affidarsi al contributo degli alleati europei per questa operazione) finiranno probabilmente per polarizzare piuttosto che stabilizzare la situazione, e si troveranno ad affrontare, date le grandi sfide, i crescenti rischi di escalation, sovrapponendo ulteriori conflitti alla mancanza di un focus americano sul nocciolo delle dinamiche politiche necessarie per un ritiro effettivo.

  1. Zone sicure

Trump vuole dimostrare come sia in grado di fornire risultati immediati per fermare i flussi migratori: sta infatti portando avanti l’idea di creare aree liberate dall’ISIS, “zone temporanee di stabilità”, dove i rifugiati potranno fare ritorno. Queste aree non saranno sicure, e non offriranno condizioni di vita sostenibili, e ci sono fondate preoccupazioni che esse verranno utilizzate per costringere i rifugiati a tornare in Siria, contro la propria volontà. Stime del Pentagono hanno indicato la necessità di circa 30.000 truppe per garantire la sicurezza di tali aree. Ciò rappresenta esattamente il tipo di missione che le truppe occidentali sarebbero mal equipaggiate ad affrontare, come ha dimostrato l'incapacità di centinaia di migliaia di soldati americani di stabilizzare Iraq e dintorni dopo l'invasione del 2003. Inoltre, le truppe di terra statunitensi saranno probabilmente focalizzate principalmente sulla lotta contro l’ISIS piuttosto che sul fornire protezione da altre forme di conflitto, sia che si tratti di dispute tra i ribelli, o di tentativi da parte di Damasco di riassumere il controllo di territori. Qualora si decidesse di subappaltare la gestione di queste zone alla Turchia, ciò provocherebbe l’abbandono delle popolazioni locali ai giochi politici di Ankara e alla prioritizzazione da parte della Turchia della lotta anti-curda.

  1. Legittimazione dell’alleanza contro i Fratelli Musulmani

Trump non ha ancora definito i Fratelli Musulmani come organizzazione terroristica, tuttavia ci sono segnali che indicano che questa dichiarazione avverrà molto presto. Ciò verrà probabilmente strumentalizzato da alcuni stati regionali, tra cui Emirati Arabi, Arabia Saudita ed Egitto per giustificare ed eventualmente intensificare la propria repressione del gruppo. Il rifiuto continuo di coinvolgere i movimenti islamisti più moderati, come la Fratellanza Musulmana rischia di restringere ulteriormente lo spazio disponibile per l’espressione politica in tutta la regione. Così facendo si va a danneggiare un gruppo che in alcuni paesi rappresenta un baluardo contro l'estremismo. Questo potrebbe spingere alcuni dei suoi sostenitori ad abbracciare metodi perfino più violenti rispetto a quelli dell’ISIS.

Le conseguenze per l’Europa

Tutto ciò mostra l’immagine di un’amministrazione risolutamente concentrata sull’infliggere sconfitte militari, a discapito di dinamiche politiche più complesse, necessarie per sostenere soluzioni effettivamente realizzabili. Invece di alimentare quelle condizioni e frustrazioni dalle quali l’ISIS stesso si è generato, l’Europa dovrebbe cercare di colmare queste lacune, qualora la lotta contro il gruppo terroristico portasse a risultati insignificanti.

Gli Stati europei dovrebbero darsi delle priorità riguardo le decisioni future: 1) concentrarsi sulla dimensione politica della lotta anti-ISIS, in termini di maggiori sforzi per risolvere i problemi di governance; 2) incrementare il coinvolgimento, sia in termini economici sia d’impegno a lungo termine, nella ricerca della stabilizzazione nel caso l’ISIS venga  sconfitto;  3) considerare con attenzione la pista diplomatica multilaterale necessaria per fare in modo che i principali attori regionali convergano verso obiettivi comuni.

Gli europei sono abituati ad aspettare direttive dagli Stati Uniti: tuttavia con la presidenza di Trump, un cenno potrebbe non arrivare ma, soprattutto, potrebbe non essere favorevole.

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